Arriva al Teatro Donizetti e conclude così la sua applaudita tournée la produzione del Trovatore di Giuseppe Verdi firmata dal regista Roberto Catalano con le scene di Emanuele Sinisi, i costumi di Ilaria Ariemme, le luci di Fiammetta Baldiserri per il circuito di Opera Lombardia del quale fa parte anche la Fondazione Teatro Donizetti insieme ai teatri di Brescia, Como, Cremona e Pavia.
Venerdì 18 febbraio (ore 20) e domenica 20 febbraio (ore 15.30) al Teatro Donizetti andrà così in scena uno dei più amati titoli del repertorio operistico, appunto Il trovatore di Giuseppe Verdi, in cui convergono i grandi temi del romanticismo operistico: l’amore, la famiglia, il potere che prendono vita in momenti musicali celeberrimi e in situazioni drammaturgiche inattese e piene di pathos.
Sul podio dell’Orchestra I Pomeriggi Musicali torna a Bergamo il pavese Jacopo Brusa, messosi in luce in questi ultimi anni proprio a partire da Opera Lombardia, che guiderà un cast di giovani interpreti, accolti molto favorevolmente nelle tappe precedenti nei teatri regionali: Matteo Falcier nei panni di Manrico, Leon Kim in quelli del Conte di Luna, Marigona Qerkezi è Leonora, Alessandra Volpe la zingara Azucena, Alexey Birkus è Ferrando, Sabrina Sanza è Ines, Marco Miglietta è Ruiz. Completano la locandina Riccardo Dernini (Vecchio zingaro) e Davide Capitanio (Messo).
L’allestimento riprende una produzione del 2019 dell’Ente Concerti “Marialisa De Carolis” di Sassari: uno spettacolo “essenziale e sobrio”, lo ha definito la stampa, “potentemente umano e icastico, che lascia il segno”. Al centro dell’azione, il dolore di Azucena per l’involontario omicidio del figlio nel fuoco, il fuoco che tortura in amore e odio i personaggi e che in scena è raffigurato da mucchi di cenere nera che però via via lascia il posto al bianco, al candore cercato con ostinazione.
Insieme a Rigoletto e alla Traviata, Il trovatore su libretto di Salvadore Cammarano ha contribuito in maniera determinante alla costruzione del mito di Giuseppe Verdi messo in scena infinite volte nei teatri di tutto il mondo, a partire dal debutto a Roma (Teatro Apollo), il 19 gennaio 1853. La storia, tipico esempio di melodramma romantico, coniuga la tradizionale coppia di amanti con i più iconici elementi della poetica verdiana: i rapporti familiari, il destino, la ragion di Stato, la morte. Alcune pagine della partitura sono divenute quintessenza dell’opera italiana e dell’immaginario collettivo legato al Risorgimento, a cominciare dall’indimenticabile citazione viscontiana nel suo film Senso; la “Pira” banco di prova di ogni tenore eroico accende le platee e i commenti dei melomani di tutto il mondo. Come sempre in Verdi, la trama delle voci e il ruolo del coro come personaggio collettivo rendono la partitura capace di evocare ogni situazione anche a partire dalla musica in sé stessa. Un motivo in più che sostiene la scelta di eseguire questo titolo in forma di concerto, per dare alle voci tutto il rilievo chiesto dagli appassionati.
Il trovatore
Dramma in quattro parti. Musica di Giuseppe Verdi.
Libretto di Salvadore Cammarano, Leone Emanuele Bardare
Prima rappresentazione: Teatro Apollo, Roma, 19 gennaio 1853
Manrico Matteo Falcier
Il Conte di Luna Leon Kim
Leonora Marigona Qerkezi
Azucena Alessandra Volpe
Ferrando Alexey Birkus
Ines Sabrina Sanza
Ruiz Marco Miglietta
Vecchio zingaro Riccardo Dernini
Messo Davide Capitanio
Direttore Jacopo Brusa
Regia Roberto Catalano
Scene Emanuele Sinisi
Costumi Ilaria Ariemme
Luci Fiammetta Baldiserri riprese da Oscar Frosio
Assistente alle scene Piero De Francesco
Coro OperaLombardia
Maestro del coro Diego Maccagnola
Orchestra I Pomeriggi Musicali
Coproduzione Teatri di OperaLombardia
Allestimento ripreso dalla produzione dell’Ente Concerti “Marialisa De Carolis” di Sassari (2019)
NOTE DEL DIRETTORE D’ORCHESTRA
Jacopo Brusa
Il celebre critico musicale e studioso delle Opere di Verdi Abramo Basevi scrisse nel 1859, a proposito del Trovatore: “ognuno vede che le inverosimiglianze ed anche le assurdità non mancano in questo argomento, ma per compenso vi è quanto basta a scuotere la fibra dello spettatore”. In questa definizione, in effetti, si racchiude il “segreto” del successo del Trovatore che, fin dalla prima rappresentazione del 1853, fu sancito dal pubblico. Il Trovatore, nonostante le ambiguità della trama, ammalia l’ascoltatore grazie alle suggestioni melodiche, ritmiche e coloristiche che si susseguono quasi freneticamente e che, paradossalmente, sono rese possibili dalla struttura del libretto stesso. Prendiamo ad esempio i primi cinque numeri musicali dell’Opera, quelli che hanno il compito di renderci, o meno, interessati all’ascolto. Ebbene, in quattro di essi vi sono dei “racconti” che, indipendentemente dalle vicende narrate, stimolano in noi il fascino arcaico del “rito del racconto”, quel rito che evoca Ferrando nell’Introduzione e, nel momento in cui il coro (ma anche il pubblico!) gli chiede di “narrare la vera storia di Garzia”, lui risponde: “La dirò: venite intorno a me!”, invitandoli/ci tutti idealmente attorno al fuoco per ascoltarlo. É Verdi stesso che ci “invita”, sfruttando magistralmente le possibilità espressive legate al testo della narrazione che, a sua volta, ci rimanda all’affascinante esotismo del mondo gitano di Azucena. La zingara, peraltro, è il personaggio veramente innovativo dell’Opera per il quale, fin dall’inizio, Verdi prevede un ruolo talmente centrale che vorrebbe che l’intero melodramma fosse intitolato a lei! Azucena si muove sempre tra disperazione, malinconia e sete di vendetta, tra momenti di lucidità e di follia, condizioni emotive, queste, che esaltano la scrittura verdiana. “Quando Azucena non ragiona, ragiona meglio il Dramma”, scriverà. Come per la Lady Macbeth di sei anni prima, la “pazzia” e, ancora di più in Azucena, lo stato ipnotico in cui spesso si trova, portano Verdi a sperimentare un uso della voce che volge molto spesso al “declamato” e al “parlato”. Di contro, Leonora, è l’espressione del Belcanto, incarnata dal legato dei Cantabili, dalle cadenze virtuosistiche, dalle agilità e – perché no? – dalle variazioni nelle Cabalette. La dinamicità dell’azione drammatica, infine, è garantita dal tradizionale duello “guerriero e amoroso” tra il Baritono e il Tenore. Verdi, per il Conte e Manrico, si esalta utilizzando le “armi” della Solita Forma. Le vicende narrate nel Trovatore, quindi, sono una vera summa di quelle passioni che Verdi cerca avidamente in quegli anni (Amore, Gelosia e Vendetta) e che gli permettono di immettere nella “tradizione” quegli elementi innovativi che contribuiranno a renderlo immortale.
NOTE DEL REGISTA
Roberto Catalano
Siamo in un luogo dove qualcosa è successo. Un luogo dove il fuoco ha distrutto ogni cosa. La fiamma ha attraversato la bellezza che un tempo vi dimorava e ne ha ucciso ogni possibile testimonianza. Resta l’ossame di quel mondo e l’immagine del vecchio progetto, ciò che doveva essere quel mondo prima del disastro, lo scheletro su cui costruire il nostro luogo da abitare. Questo progetto è sotto gli occhi dello spettatore da subito, quasi fosse un promemoria dello sforzo compiuto prima della sua realizzazione. Come se facessimo coincidere il progetto di un palazzo bellissimo con la fotografia della sua distruzione. È un ricordo, è lo strazio della memoria che continua a bruciarci i pensieri, è la compresenza di ciò che era e di ciò che non c’è più.
Così questa storia comincia, in un mondo compromesso, dove il trauma di Azucena, amplificato sulla scena, ha investito la vita di chi vive in una stanza completamente sommersa dai resti di un mondo perduto. Una libreria che non ha smesso di bruciare ci rimanda all’impossibilità di verificare che le cose qui narrate siano davvero accadute. Gli uomini che abitano questo posto vivono nella completa solitudine, errando sulla terra deserta e nera, intrappolati nella storia che non li lascia andare. È la storia di un dolore doppio e terribile. La storia di una donna che ha visto morire la madre e che per errore ha arso vivo il proprio figlio. Il fuoco è l’assassino, l’immagine che si è impressa negli occhi al punto da sostituirsi al mondo tutto intero. Azucena, così come tutti gli abitanti di questa storia, si muove sopra i resti che quel fuoco ha lasciato dietro di sé, e il suo incedere passo dopo passo nel mare nero che le ricorda tutto, le brucia ancora la pelle. Le sue mani, come un aratro, solcheranno la terra ricoperta di cenere scoprendo la luce che vi si nasconde. Perché bisognerà scavare per disseppellire il mondo che era e trovare una “pace bianca” che possa tornare a far respirare tutti.
È la rimozione di un trauma. La pulizia definitiva di un’anima fortemente compromessa dal dolore. La ricerca della luce che ognuno di noi possiede e che è seppellita sotto il peso delle colpe. I resti bruciati che vengono rimossi non sono mai abbastanza, e il bianco che giace sul fondo lo si può solo intravedere, Mucchi di sporco vengono prelevati a tempo dagli zingari, con le donne che incitano gli uomini a fare un buon lavoro. In quel mondo bisognerà abitarci per sempre e, per sempre, si sarà condannati forse ad operare questa rimozione. Come ci fosse, sulla pelle di ciascuno, l’impronta di un peccato da dover espiare.
Ognuno col suo peso. Ognuno con la propria colpa.
Azucena rivive il trauma di quella doppia morte di continuo. La sua realtà, filtrata da occhi ormai morti, è quella che ciascuno di noi vede. Ciò che le è accaduto è talmente potente che ha involontariamente toccato tutti.
Solo Leonora potrà liberarli. Soltanto la sua morte potrà davvero rendere possibile questo amore che altrimenti, soffocherebbe sotto la cenere come tutto questo mondo che agonizza. Sarà così che deciderà di offrirsi all’uomo che da tempo brama di possederla. Al cospetto del Conte di Luna, infatti, offrirà se stessa in cambio della libertà, in cambio di una breccia nel muro, di uno spiraglio di luce che consenta a Manrico di fuggire via da questa “tomba di vivi”. Il suo sacrificio, questo amore che in questo mondo non trova spazio, potrebbe liberarli tutti. Nessuno però ha tempo di vedere che la via è schiusa; che, finalmente, tutto il mondo è in luce. Al cospetto della definitiva libertà, si resterà immobili e inermi. Ciascuno impegnato con la propria rabbia, con la grande stanchezza che questo vivere comporta. Perché i personaggi di questa storia non compiono alcuna evoluzione. Sono immobili. Si fanno voce di un passato perduto e di un futuro che forse non vedranno mai. Il racconto è un graduale svelamento del loro vissuto, di un antefatto a noi celato, di battaglie combattute lontano dalla scena, di dolori talmente forti da essere indicibili. Ciascuno con la propria coltre di cenere addosso e questo tentativo, ostinato e perpetuo, di rimuovere lo sporco per disseppellire la purezza perduta. Come ciascuno di noi, nel rapporto coi dolori da cui cerchiamo di liberarci, con le colpe da cui vogliamo ripulirci. Alla fine di questa storia, Manrico viene mandato a morire e gli occhi di Azucena si posano su un altro omicidio. “Egli era tuo fratello”, urla la zingara al Conte che finalmente entra in possesso della verità. Quell’uomo è ora un omicida. Il trauma col quale deve convivere adesso, è soltanto il suo. Azucena vendicando la madre spegne in parte il suo dolore. Leonora e Manrico, liberandosi nella morte, sono gli unici esseri umani di questa storia ad essersi salvati. Il conte, pur sopravvivendo, è destinato alla peggiore delle condanne: quella delle anime morte condannate alla vita.
Biglietteria
Piazza Cavour, 15 –Bergamo
T. 035 4160601/602/603;
martedì-sabato, ore 13-20
Costo dei biglietti: da 5 a 70 euro