Durante la chiusura del Teatro dovuta all’emergenza sanitaria legata al Covid-19 i ricordi lo hanno fatto vivere!
La Direttrice Artistica della Stagione di Prosa e Altri Percorsi della Fondazione Teatro Donizetti di Bergamo – Maria Grazia Panigada – ha promosso la campagna APERTI AI RICORDI chiamando il pubblico e agli attori, in passato ospiti della Fondazione, a condividere pensieri e ricordi legati al Teatro e alle precedenti Stagioni. Un invito a inoltrare foto, video, pensieri per ricordare i momenti belli vissuti insieme, gli spettacoli tanto amati, gli interpreti che più hanno emozionato.
I ricordi del nostro pubblico
Lo spettacolo è finito. L’eco degli applausi si è spento. Palchi e platea sono tristemente vuoti. Mi giro per dare un ultimo sguardo a questi spazi che per molto tempo mi hanno permesso di godere di sensazioni ed emozioni bellissime ed inaspettate. Il teatro è vuoto, ma quando tutte le luci saranno spente, le porte chiuse, la penombra, l’oscurità ed il silenzio saranno la materia stessa di fantasmi e spiriti. Essi rimarranno qui a presidiare assieme agli odori dei legni, dei velluti e delle macchine di scena, il terreno per i nuovi spazi e le nuove stagioni di questo luogo.
Ho avuto questa fortuna: di assistere in questi ultimi due anni alla preparazione di un testimone, bello, importante che sarà, come in una staffetta, consegnato al nuovo teatro per fecondare i nuovi spazi e le attese degli amanti di questa magia…
“Quello che non ho” con Neri Marcorè – Stagione 2016/2017, l’ultimo spettacolo prima della chiusura del teatro
In tanti anni di teatro (ho cominciato l’altro secolo) molti sono gli spettacoli che hanno lasciato il segno e suscitato emozioni ancora oggi vive. Ma pensando alle stagioni recenti mi vengono in mente: la magia di Slava’s Snowshow, l’intensità di Ermanna Montanari in Maryam, la superba prova teatrale di Marco Martinelli che per improvvisa indisposizione della protagonista, l’ha sostituita leggendo il copione di Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi. Ed infine la dolorosa attualità di Lella Costa in Humans.
Primo movimento
Teatro Donizetti 1992?
Il palco vuoto. Niente quinte. Niente fondale. Il cordame a vista. Un palco enorme. Nudo. Al centro del palco una sedia. Buio. Luce. Sulla sedia c’è un attore conosciuto qualche mese prima. Tappa finale di Premio Scenario. Noi di Teatro Erbamil avevamo spaccato. Noi giovincelli. Con i nostri carrellini e i nostri grotteschi personaggi. Ridevano tutti, tantissimo e lui pure, l’attore che ora vedevo muoversi su quella piccola sedia. Sì, era inchiodato a quel legno ma il suo corpo vestito di nero, illuminato da un piccolo cono di luce, batteva, scalpitava, fremeva si ingigantiva e scompariva. Era uno, dieci, mille. Era uomo,
donna e cavallo. Imperatore, guerriero, servo e zingara. Moltitudine e Solitudine. Io in una terza fila rubata al buio, lo seguivo incantata. Occhi spalancati. Occhi infiammati. Occhi di riso e di pianto. Di furia e di tenerezza. L’ardore di Kolhaas e le sue domande sulla giustizia mi tenevano lì ipnotizzata in apnea. Ricordo le mie braccia che stringevano tese, la vuota poltrona davanti a me. Com’era possibile che un omino seduto, riempisse da solo quel palco immenso la platea tutta e tutti i cuori?
Intermezzo
Finito lo spettacolo andai spinta da un’amica all’uscita artisti. Tachicardia. L’attore uscì mi guardò, mi sorrise e mi disse: “Erbamil? Bravissima”
Secondo movimento
Teatro Donizetti marzo 2016.
Sono davanti all’entrata artisti. Sì. Quella. La guardo. Tra poco l’attraverserò e troverò un camerino con scritto il mio nome. Tachicardia. Sigaretta e uno sguardo furtivo al Sentierone. Sono la prima. Aspetto i colleghi. Prove luci, aperitivo da Balzer e poi si debutta a Bergamo col Decamerone. La tournée alle spalle è già lunga ma stasera si debutta in casa. Nel teatro dei sogni. Nel teatro in cui da ragazzina ho visto Carmelo Bene, Vittorio Gassman, Mariangela Melato. So che è tutto esaurito. So che tanti amici e amiche son lì in platea o nei palchi, stipati in piccionaia. E ci sono gli amori vecchi e nuovi e i compagni di viaggio.
Finale
Mi squilla il telefono, è il regista. Marco Baliani. Quell’omino vestito di nero che mi tenne col fiato sospeso sul palco di questo teatro che stasera mi accoglierà.
Il pensiero di Silvia Briozzo, artista bergamasca, legato al Teatro Donizetti intreccia il doppio ruolo di spettatrice e di attrice, attraverso l’incontro con l’attore e regista Marco Baliani
Passione, stupore, emozione si intrecciano in un poetico ricordo
– Kohaas – Stagione di Altri Percorsi 1991/1992
– Decamerone – Stagione di Prosa 2015/2016
La scena spoglia, un mondo creato da movimenti, parole e luci. La storia è ben nota, ma questa atmosfera quasi da teatro dei burattini la rende nuova, delicata, magica. Estremo il rigore fisico degli attori, una ripetizione dei movimenti che insieme caratterizza i personaggi e ammalia lo spettatore. All’uscita del teatro ci si guarda intorno e come gli altri non si può non sentirsi commossi, felici e profondamente innamorati.
Ricordando “Un Principe” Occhisulmondo – Stagione di Altri Percorsi 2018/2019
Se posso tornare un po’ indietro nel tempo arriverei al Teatro Canzone di Giorgio Gaber, e in particolare a questa: ricordo ancora le risate incontenibili nei miei compagni di palco
“E pensare che c’era il pensiero” – Stagione 1994/1995
Cheese con gli artisti Glauco Mauri (in “Finale di Partita”), Natalino Balasso (in “Arlecchino servitore di due padroni”), Giovanni Esposito (in “Regalo di Natale) e tre degli interpreti de “Il giardino dei ciliegi”: Lodovico Guenzi, Nicola Borghesi e Tamara Balducci. I ricordi più belli di questa Stagione 2019/2020 condivisi con noi da Noemi Belloli.
Mia madre iniziò a portarmi a teatro ai tempi delle scuole medie. Negli anni ho visto di tutto: monumentali mattoni e momenti scolpiti nella memoria, molto Pirandello e la sublime “Madre Coraggio” interpretata da Mariangela Melato.
Nei miei vent’anni ho avuto la fortuna di immergermi nella penombra del Teatro Sociale prima della pur necessaria operazione di restauro. Sono forse tra le poche persone che ricordano con nostalgia l’atmosfera di quello spazio sospeso nel tempo. Benché non apprezzi molto questo aggettivo, non posso definire altrimenti che “magica” la sensazione di stare in quel vecchio teatro in rovina, così come magico mi è sempre parso l’istante in cui si spengono le luci di sala e le pareti del Teatro Donizetti si tingono di un rosa intenso prima che si faccia buio e si alzi il sipario.
Nella segregazione domestica di queste settimane, che induce a pensare con agrodolce nostalgia ai momenti e ai volti del passato, mi tornano alla memoria certi intervalli nel foyer e persino le corse per rimediare un caffè prima della campanella. Creare delle classifiche tra gli spettacoli visti è sempre operazione molto parziale, inficiata da troppe variabili personali, e talvolta persino sgradevole. Certamente però ci sono rappresentazioni che si stagliano nel ricordo in maniera del tutto particolare, forse perché intersecano una fase o una domanda ancora aperta della nostra vita. Forse perché dicono la parola giusta al momento giusto. Forse perché, come uno spillo, pungono nel modo efficace e inducono a una salutare messa in discussione di qualche categoria stantia.
Sono molte le opere di questo tipo che mi ricordo nelle ultime stagioni. “Antigone” attualizzata con una sorta di moda berlinese degli anni Venti ha riproposto il dilemma della tensione tra legge e giustizia. Devo qui ammettere di avere una speciale ammirazione per Arianna Scommegna dai tempi in cui la vidi in “Qui città di M” al ATIR Teatro Ringhiera di Milano. “Maryam” con Ermanna Montanari ha dato corpo alle lacrime che non avevo ancora pianto per l’amata Siria, per le persone che ho conosciuto in Medio Oriente e di cui, in alcuni casi, non ho avuto più notizie, per i dolori, le frustrazioni e le aspirazioni di tanti rifugiati e profughi, siriani, libanesi, palestinesi. Nelle preghiere di quelle Marie ho percepito nelle vene l’umanità che scavalca le barriere confessionali, etniche e nazionali con cui tanto spesso giochiamo a incasellare il mondo. Di Montanari e Martinelli ricordo “Va’ pensiero”, un’amarissima fotografia dello sbandamento politico, economico e morale della società italiana.
Non posso dimenticare “Amleto a Gerusalemme: Palestinian Kids Want to See the Sea” di Gabriele Vacis e Marco Paolini, i ragazzi palestinesi sul palco, le bottiglie in fila, i corpi dietro un telo bianco. Non posso dimenticare “Occident Express” con Ottavia Piccolo nel ruolo di Haifaa, con quel finale così straziante. Non posso dimenticare “Muri” con Giulia Lazzarini, con uno spaccato della vita nei manicomi prima e dopo la riforma di Franco Basaglia. Non posso dimenticare “Lireta”, visto con un’amica albanese che aveva vissuto la stessa storia narrata dalla protagonista, rendendo esplicito il rapporto tra arte e vita che è alla base stessa del teatro; “Ivan”, con la regia di Serena Sinigaglia, anch’ella nota dai tempi del Teatro Ringhiera; e ancora Elio De Capitani, tante volte visto e apprezzato al Teatro Elfo Puccini di Milano, in “Morte di un commesso viaggiatore”.
Nel ripensare le passate stagioni sento una sincera gratitudine per l’opportunità che questi spettacoli offrono a ogni persona che li veda: l’opportunità di uno sguardo diverso, più attento sul mondo intorno a noi, e l’opportunità di uno sguardo più profondo dentro di noi, in attesa di tempi migliori e nuove stagioni.
Molti sono i ricordi degli spettacoli vissuti al Donizetti ma quelli che mi sento ancora addosso, sulla pelle, sono gli spettacoli portati dalla Compagnia Finzi Pasca e Slava’s Snowshow, del quale conservo ancora i coriandoli di carta velina bianca!
Ma la cosa più incredibile è quello che mi è successo nel 2016. Maria Grazia Panigada mi chiamò e mi chiese se per Carnevale potevo raccontare storie al Donizetti. “O mio Dio – pensai – un sogno che si realizza! Io, una semplice racconta-storie al Donizetti!?” Si, proprio così.
Credo pochi artisti abbiano l’onore di vivere quello che ho vissuto io e cioè raccontare storie per quasi tre ore, non sul palco del Donizetti ma sul RETRO PALCO! Capite? Dietro il palco, dove solo i macchinisti lavorano, i tecnici. Un luogo nascosto, magico, duro. Il perfetto posto per narrare storie!
E ho ancora le prove di quanto successo; le fantastiche foto di Gianfranco Rota.
Marco Baliani in primo piano sul palcoscenico nel finale di Corpo di stato: “Eppure venivamo tutti dagli stessi bisogni di eguaglianza, di giustizia, venivamo tutti dallo stesso grande sogno”?
Toni Servillo ne Le voci di dentro con il suo monologo sul decadimento dei valori (“Lo avete creduto possibile. Un assassinio l’avete messo nel bilancio di famiglia! La stima, don Pasquá, la stima reciproca che ci mette a posto con la nostra coscienza, che c’appacia con noi stessi, l’abbiamo uccisa…. E vi sembra un assassinio da niente? Senza la stima si può arrivare al delitto”) di un’attualità sorprendente, pensando alla (dis)attenzione agli anziani di questi tempi.
La coralità della Compagnia Finzi Pasca ne La verità con la pioggia di palline colorate che cadono dall’alto ed i sogni che possono diventare realtà, fosse anche solo per due ore, in uno spettacolo?
Per fortuna nella vita esistono tante prime volte. E per fortuna la mia prima volta a teatro è stata tanti anni fa, quando ero una bambina di nove anni. I miei genitori volevano che io imparassi ad amare la bellezza.
Al teatro e alla bellezza devo tantissimo.
Oggi però voglio ricordare un’altra mia prima volta: il primo articolo. Caso ha voluto, che tre anni fa, mi ritrovai a scrivere di uno spettacolo stupendo, messo in scena al Teatro Donizetti, lo stesso in cui mi portarono i miei genitori molti, molti anni prima.
Sul palco Neri Marcorè, attore e interprete sorprendente del prezioso repertorio deandreiano.
Da ormai due anni ho la fortuna immensa di seguire per Bergamonews la stagione di Prosa e Altri Percorsi della Fondazione Teatro Donizetti. Un’esperienza che mi ha cambiata, mi ha resa una donna e una cittadina migliore.
L’appuntamento settimanale, le interviste con attori e registi, le luci che si spengono un attimo prima che inizi lo spettacolo… Tutto questo mi manca tantissimo. Non potrebbe essere diversamente.
L’articolo di Francesca Lai: bit.ly/3fnCNmw
Ti regalano l’abbonamento ad Altri percorsi, i tuoi amici che ti vogliono bene. Tu arrivi, ti siedi la prima sera, e puntuale di fronte a te la signora elegante con i capelli molto, molto (molto) cotonati. Pazienza, dondoleremo un po’ a sinistra e un po’ a destra sperando di non irritare a nostra volta chi sta dietro di noi. Già sai quale sarà il tuo spettacolo preferito. Quello che non sai è la sete. Perché quel pezzo di teatro e di poesia disseta e asseta. Mentre ti appaga ti accresce il languore. È il 28 marzo 2018. Lei è Mariangela Gualtieri. Noi siamo il Teatro Sociale. “Porpora, rito sonoro per cielo e terra”. Sparisce la cotonatura, che tanto per lo più gli occhi sono chiusi. Sparisce il teatro, il suo splendore lo afferri prima e dopo, durante lo lasci andare. Sparisce il tuo corpo che diventa casa dove indulgere nella ricezione e nel piacere e nella ricerca. E nella sete. Ogni parola si stacca dalle sue labbra, si solleva e volteggia sulla scena e poi ti si appoggia su quella punta del cuore che scioglie ed emoziona. Questo è “Porpora”. Per chi ama la poesia di Mariangela Gualtieri, per chi beve le sue parole. E non è mai abbastanza.
Se mi sono innamorata del teatro, è stato anche grazie al “Sogno di una notte di mezza estate”, che il Donizetti ospitò credo nel 1989. Mi avevano portato a teatro, quasi costretta. Avevo tredici anni. Rimasi folgorata. E il giorno dopo, timida, tornai alla biglietteria a comprare di nuovo un biglietto (questa volta in piccionaia, seconda galleria, pagato con i “miei” soldi), per tornare a rivederlo. Non capivo quasi nulla, ma fu una meravigliosa ubriacatura. Non smisi più di cercare quella sensazione, che solletica cuore, testa e corpo.
“Sogno di una notte di mezza estate” di e con Glauco Mauri | Stagione di Prosa 1988-1989
Federica Molteni è attrice, formatrice teatrale, esperta di letteratura per l’infanzia. Con l’attore Michele Eynard ha fondato nel 2008 la compagnia teatrale Luna E Gnac Tearo
Difficile riassumere le emozioni che questo luogo per me ha rappresentato nella vita, soprattutto difficile raccogliere il tutto in uno spettacolo. Ricordo ancora la prima volta che entrai in teatro, avevo 4 anni e mi portò mia nonna, e da allora non ho mai smesso di amarlo.
Anni dopo ho avuto modo di vedere gli spettacoli da un altro punto di vista, lavorandoci e in quel periodo ho conosciuto un mondo pazzesco, fatto di fatica, di dedizione e di amore, l’amore che solo chi lavora all’interno può comprendere soprattutto quando dopo uno spettacolo si riesce a lasciare qualcosa a chi assiste. Ho potuto conoscere persone che non dimenticherò mai, alcuni sono diventati pure gli amici più cari.
Per citare una frase, “la casa è dove sta il cuore” e il mio è rimasto lì, tra quelle mura.
Vorrei però, tra i tanti spettacoli, citarne due che mi hanno completamente travolto:
– “Variazioni enigmatiche” con Glauco Mauri e Roberto Sturno 2001
– “Sabato, domenica, lunedì” con Toni Servillo e Anna Bonaiuto 2006
Bergamo, Teatro Sociale – 7 dicembre 2019
Hamm: “La natura ci ha dimenticati”
Clov: “Non c’è più natura”
Hamm: “Più natura adesso esageri”
Clov: “Nei dintorni”
Hamm: “Ma noi continuiamo a respirare, a cambiare! Perdiamo i capelli, i denti! La nostra freschezza! I nostri ideali!”
Clov: “E allora non ci ha dimenticati”
Hamm: “Ma tu dici che non esiste più”
Clov: “Nessuno al mondo ha mai avuto dei pensieri così sballati come i nostri”
Quando si arriva a comprendere Beckett? Quando si smette di capirlo, per arrivare al cuore di “Finale di partita” bisogna pensare ed agire all’incontrario, non seguire la logica, ma il suo opposto. All’inizio di “Finale di partita”, quando in sala scende la notte e si accende il palcoscenico, dentro ad ogni spettatore si accende una voce: “Signori e signore benvenuti nel mondo “Beckettiano”, nella commedia dell’assurdo dove nulla ha un senso”. “Finale di partita” è una navicella spaziale venuta da un pianeta sconosciuto, approdata, forse, sulla terra per sbaglio, ma pronta a rapire chiunque gli si sieda vicino e trasportare la platea nell’assurdo e sconosciuto profondo mondo degli uomini. Andrea Baracco dirige un viaggio – capolavoro nell’anima umana, andando a rispolverare ed a scoprire i suoi angoli più sconosciuti, le paure, i tormenti, le tristezze ed i bisogni di una società incapace di trovare una via d’uscita, sempre più persa nella solitudine dell’incomprensibile ed enorme labirinto della vita. Nell’adattamento del testo “Beckettiano” c’è anche spazio per un’amara riflessione sull’incapacità dell’uomo di creare di rapporti, sulla sua incapacità di comunicare. Hamm (Glauco Mauri), Clov (Roberto Sturno), Nagg (Mauro Mandolini) e Nell (Marcella Favilla) vivono prigionieri tra quattro mura d’acciaio, ognuno nella sua gabbia di solitudine e tristezza, forse unici sopravvissuti di chissà quale catastrofe. Tutti e quattro sono costretti a convivere e vivono i loro giorni sopportandosi, ma dentro di loro hanno un gran bisogno di affetto, di comunicare, di uscire dalle loro gabbie, raccontarsi ed essere ascoltati. Il loro è lo specchio dello strano rapporto che l’uomo ha prima di tutto con se stesso e poi con gli altri, del misterioso rapporto padre-figlio / madre-figlio / genitori-figli, dell’eterna ed infinita lotta tra bene-male, di quella doppia personalità che sta dentro ognuno di noi che porta la nostra anima ad essere in bianco e nero, del “ti odio, ma non riesco a fare a meno di amarti” (odio-amore) e del dilemma dentro ognuno di noi vado-resto. La storia ruota attorno ai personaggi di Hamm (un grandissimo Glauco Mauri) e Clov (un sorprendente Roberto Sturno). Il primo è un vecchio burbero brontolone, con dentro al cuore una grandissima voglia di comunicare, ma incapace di farlo fino in fondo. Attraverso i suoi discorsi “senza senso” arriverà a dare un piccolo senso alla sua vita, accetterà e riuscirà a scrivere il suo “finale di partita”. “Tocca a me… la mossa giocare… vecchio finale di partita persa, finito di perdere” (Hamm in “Finale di partita”). Clov vorrebbe andarsene, ma non ci riesce, “…fuori è la morte” “…al di là c’è l’altro inferno…”, oltre quella prigione c’è l’ignoto, un mondo che non conosce, che non è nemmeno sicuro esista ed allora meglio rimanere lì, rinchiuso, al sicuro tra quelle quattro mura d’acciaio. “Finale di partita” è un viaggio nell’anima umana, lascia il segno dentro e quando alla fine la realtà, quella di tutti i giorni verrà a prenderci per riportarci nel nostro mondo, ogni spettatore la seguirà con la consapevolezza, spero di conoscersi un po’meglio e che quel viaggio sia servito a fare un passo avanti, a diventare un po’ migliori. “Finale di partita” è anche una partita a scacchi tra Glauco Mauri e Roberto Sturno, tra Maestro ed allievo, fianco a fianco per 100 minuti di spettacolo, la loro sarà una partita senza vincitori né vinti. Il mio “finale di partita”, il mio grazie più grande va a Glauco Mauri un “bambino” di 89 anni che, dopo aver passato una vita sul palcoscenico, è ancora capace di emozionarsi, stupire, provare, sull’applauso finale gli si illuminano ancora gli occhi davanti a quella Grande Magia chiamata teatro. Grazie e complimenti!
I ricordi degli operatori del teatro
Ovviamente lo spettacolo che mi ha colpito di più in questi 10 anni di servizio al teatro Donizetti è stato Slava’s Snowshow…. Ricordo molti momenti che mi hanno lasciato senza fiato. Facendo la maschera ho avuto occasione di rivedermelo più volte…
Mi manca il “mio teatro”. Per me il teatro Donizetti ha avuto sempre molti significati tra cui casa, condivisione e speranza. Devo tutto a questo teatro. Da quel primo giorno di lavoro come comparsa nell’opera “La Cecchina” di Piccinni la mia vita è cambiata. Ho iniziato a scoprire un mondo per me sconosciuto e li ho deciso che non me ne sarei più separato…. #apertiairicordi #iorestoacasa
Christian Invernizzi – Responsabile personale di sala Fondazione Teatro Donizetti
Potrei citare molti dei titoli che in questi anni mi hanno più colpita, come “Le sorelle Macaluso” o “Bianco su Bianco”, ma una delle emozioni più grandi legata al teatro rimane per me il giro per il Donizetti vuoto che ho fatto in compagnia di Chiara quando sono stata assunta.
Forse non tutti sanno che dalla biglietteria del Teatro Donizetti c’era un passaggio che portava direttamente all’interno della sala. Dal primo piano dei palchi, si poteva dunque accedere direttamente al palcoscenico e con un percorso più tortuoso anche alle gallerie. Il solo aprire quella porta cigolante ed essere catapultata in una dimensione così insolita e maestosa, il girare fra i corridoi di velluti rossi e intravvedere, con un sussulto, scorci del teatro fra le porte aperte dei palchetti è un ricordo magico che mi accompagnerà per sempre. Ho vissuto come un privilegio il poter gironzolare e scoprire i “passaggi segreti” che dalle gallerie portavano ai palchi e poi su fino a trovarmi faccia a faccia con il graticcio, spiare dietro il sipario e ancora calcare le assi spesse del retropalco, attenta a non inciampare nel groviglio di corde e cavi.
Sono questi alcuni degli aspetti che più mi mancano: i momenti di vita intima del teatro.
Sara Fustinoni – Biglietteria Fondazione Teatro Donizetti
Non c’è un ricordo particolare… o, perlomeno, non c’è un unico ricordo. Sono ormai dodici anni che lavoro per il Teatro Donizetti prima e per la Fondazione Teatro Donizetti ora e, in questo momento triste e buio, sono tanti i ricordi: dalla prima volta che ho messo piede nel teatro cittadino, ancora liceale, alle successive frequentazioni universitarie, fino a passare dall’altra parte, quella di chi in quel teatro ora ci lavora.
E allora come ricordo vorrei usare questa foto, non tanto per lo spettacolo, bellissimo (Il visitatore con Alessio Boni e Alessandro Haber nel 2016), quanto per quell’immagine del pubblico: felice, in piedi, grato. È per loro che noi produciamo teatro.
Michela Gerosa – Ufficio Comunicazione, Fondazione Teatro Donizetti
“In un periodo in cui siamo isolati nelle nostre abitazioni, vorrei ricordare lo spettacolo di prosa, andato in scena al Teatro Sociale l’anno scorso, dal titolo “Si nota all’imbrunire (Solitudine da paese spopolato)”, in cui il protagonista, interpretato da Silvio Orlando, decide di ritirarsi dalla vita sociale mentre sogna la compagnia dei suoi parenti più cari. Se nella passata rappresentazione teatrale l’attore sceglie di chiudersi al mondo esterno, nella presente situazione reale siamo confinati in casa per necessità, ma in entrambi i casi assistiamo ad una perdita di equilibrio tra individualità e collettività. Ora che ci troviamo tutto il tempo nello spazio domestico, mentre guardiamo fuori in attesa di rivedere i nostri affetti e di viaggiare nel mondo, possiamo guardarci dentro dedicandoci a noi stessi, e valorizzare anche questa dimensione perché, come scrisse Arthur Schopenhauer, «chi non ama la solitudine non ama la libertà».”
Ho iniziato a lavorare in teatro durante la stagione 2016/2017, l’ultima stagione teatrale al Donizetti prima della ristrutturazione.
Quell’anno, la Stagione di Prosa fu inaugurata da “Smith & Wesson” di Alessandro Baricco, con Natalino Balasso e Fausto Russo Alesi sul palcoscenico. Questo spettacolo inaugurò anche il mio primo servizio in galleria, un’area del teatro che ho amato fin da subito e di cui ho sentito fortemente la mancanza in questi anni al Teatro Sociale. Il ricordo di questo spettacolo è ancora estremamente vivido nella mia memoria.
Con “HUMAN” di Marco Baliani e Lella Costa ho capito di non essere più una semplice spettatrice, ma una parte del teatro stesso. La storia portata in scena dai due artisti era talmente coinvolgente che il pubblico era diventato un tutt’uno con gli attori, in un silenzio palpabile ed emozionato. Mi ricordo di aver pensato che senza il pubblico non avremmo potuto avere il teatro, ed è proprio con il pubblico che abbiamo potuto amare.
Slava’s Snowshow, per vedere il quale io e i miei colleghi facevamo a gara per entrare in sala. Uno spettacolo sorprendente, emozionante e bellissimo, che mai avrei sperato di poter ammirare al Donizetti. Questo spettacolo mi ha permesso di capire che quella del teatro è una famiglia nella quale avrei voluto crescere e che in questo periodo di chiusura mi manca moltissimo.
Lo spettacolo che però porto nel cuore è “Quello che non ho”, con Neri Marcorè, le parole di Pier Paolo Pasolini e le musiche di Fabrizio De André. L’ultimo spettacolo nella cornice donizettiana, che ebbi l’opportunità di vedere nel giorno del mio ventunesimo compleanno. Uno spettacolo carico di emozioni, di grandi artisti e un pubblico coinvolto, che amo ricordare nei momenti di nostalgia, nella speranza di poter tornare presto nei luoghi che amiamo.
Quando penso a tutti i bei ricordi che ho accumulato in poco più di un anno come maschera, faccio davvero fatica a sceglierne uno solo. Forse tra i più intensi c’è quello che riguarda lo spettacolo “La lista”, una storia quasi sconosciuta raccontata da Laura Curino in un monologo straordinario. Nella penombra della memoria (e della sala), riesco ancora a vedere la luce soffusa che riberverava sulla scena scarna e sui volti rapiti degli spettatori, ad evocare quel silenzio incantato che nessuno avrebbe voluto finisse mai, l’atmosfera intima di un dialogo intellettuale sull’arte ma soprattutto sul coraggio della libertà. Libertà che per me era e sarà anche questo: andare a teatro e respirarne la magia.
Beh.. sono tanti gli spettacoli a cui ho assistito in questi 10 anni di lavoro presso il Teatro Donizetti, ma vista la particolare situazione attuale subito penso a “Finale di partita” andato in scena soli pochi mesi fa. Amo Beckett e amo il teatro dell’assurdo. Dialoghi semplici, brevi e senza senso. Personaggi indefiniti e inconsistenti. Scenografia scura, pesante, ridotta ma che fa affiorare un turbinìo di domande e riflessioni. La solitudine, l’angoscia, la vacuità dell’essere umano che rinuncia a muoversi e che si lascia vincere dal mondo devastato che lo circonda. Più provo a capirlo e meno lo capisco. Ho guardato due volte questo spettacolo: quello che realmente mi affascina è la follia dell’arte
Quando ripenso al Teatro Donizetti penso al buio. Il teatro è uno dei pochi luoghi dove c’è sempre buio anche durante il giorno, quando non c’è spettacolo la sera. Un buio a volte rassicurante, a volte vagamente inquietante, dove ogni tanto passa uno spiraglio di sole tagliente da una porta dei palchetti rimasta socchiusa, o dove un neon tremolante di un sottoscala accompagna l’eco dei miei passi. In teatro si può avere persino l’impressione di perdersi, oppure sobbalzare al minimo scricchiolio delle assi di legno nel silenzio sordo (il legno si muove e si assesta continuamente in modo impercettibile), quando l’unico riferimento è la luce azzurra dell’orologio in sala che rimane là, sempre uguale, a segnare un tempo già passato.
È in quelle giornate che si può sentire quello che io chiamo “l’odore di teatro”, un odore che c’è soltanto qui, che ti resta addosso sui vestiti, fatto da un misto di polvere, di legno, di canapa delle corde, di ferro e di tappezzeria.
Nel corso della mia esperienza lavorativa con il Teatro Donizetti, ho avuto modo di ricoprire vari ruoli e mansioni, da figurante dell’Opera Lirica a portinaio, fino ad approdare all’attuale ruolo di membro del personale di sala in qualità di maschera. Ho avuto quindi la fortuna di vivere l’esperienza della “vita teatrale” da molteplici punti di vista, sia dal palcoscenico che da dietro le quinte, sia a contatto con gli artisti che con il pubblico.
Di ricordi ne ho accumulati tanti, ma quello che mi sento di condividere non è un episodio specifico, ma piuttosto una sensazione, un’atmosfera. Ed è quella che si respira poco prima dell’apertura del Teatro al pubblico, quel momento in cui le varie componenti dello staff, i fondamentali ingranaggi di quel grande marchingegno che è il Teatro, sono colti da una particolare frenesia, ognuno intento nel portare a termine gli ultimi preparativi che il proprio particolare ruolo richiede, dal macchinista alla maschera, dal bigliettaio al fotografo, dai membri dell’amministrazione agli attori e così via.
E nonostante la grande professionalità che ogni mansione richiede, la vera magia è che si riesce a respirare comunque un’aria di famigliarità, di complicità, un’alchimia particolare tra tutte queste componenti che consente di gestire il tutto (anche gli imprevisti…e a Teatro ne capitano parecchi) nel migliore dei modi e che quindi, quando tutto è pronto e tutti sono al loro posto, consente di infine di spalancare i portoni del teatro agli spettatori e dare inizio alla (loro) serata.
Si tratta di una qualcosa di sottile, forse non direttamente avvertibile da parte del pubblico, ma credo che contribuisca a rendere una serata a Teatro una meravigliosa esperienza.
Ecco, questo è quello che più mi manca del Teatro e quello che spero, non appena la situazione lo consentirà, di tornare presto a vivere.
Essendo questo un momento speciale ed il Teatro Donizetti uno spazio ancor più speciale per me, mi sono presa tempo per condensare opportunamente i pensieri.
Il mio primissimo ricordo del Teatro Donizetti risale all’incirca al 2000.
Ero nel pieno del “Corso per attore” al Teatro Prova, mi affacciavo alla conclusione del mio percorso al Liceo Artistico di Bergamo, e nella mia mente iniziava appena a farsi strada il “fuoco sacro” che mi avrebbe portata alla Paolo Grassi.
Non ricordo bene da chi fui sospinta, ma mi ritrovai ad una pomeridiana (probabilmente una generale) di una straordinaria “Fedra” interpretata da una impareggiabile Mariangela Melato.
Eppure il ricordo più incisivo non riguarda l’attrice, ma la scenografia. Di un tale impatto visivo da radicarsi nei miei pensieri. Con movimenti scenici di una tale “leggiadria monumentale” da accrescermi un desiderio di indovinare il “dietro le quinte” al limite dello struggimento.
L’attrazione per il “dietro le quinte” da allora non mi ha più lasciata. Mi ha seguita in Paolo Grassi quando, allieva del corso di Scrittura Drammaturgica, mi intrufolavo a sbirciare il laboratorio di scenotecnica del Professor Palla. Mi è rimasta saldamente addosso quando, nel 2007, sono approdata al colloquio per la selezione delle nuove maschere di sala per il Teatro Donizetti e sono stata assunta. Ho bevuto con gli occhi ogni millimetro di quella meravigliosa “macchina dei sogni” che mi si svelava attraverso il primo percorso conoscitivo dei suoi spazi con Matteo Sartori. La bocca aperta dal timor reverenziale allo svelamento di boccascena e retropalco da un punto di vista del tutto inedito. Da quella prima scoperta sono passati anni, ma il fascino che gli ingranaggi di questa splendida macchina delle meraviglie resta intatto e la curiosità, lungi dall’essere soddisfatta, si accresce ad ogni nuova scoperta e, mi auguro di cuore, non smetta mai.